La vertigine della lista (e del curatore)

“Stop it. Just stop. Do you have a business card? Read it. Does it say “Curator” under your name? No? You are not a curator. […]What makes a curator? This seems to be up for interpretation. […] I have a masters degree in art history. I worked as an intern, as an assistant curator, at an auction house, as an art history instructor, and, finally, as a curator. I did not sit at my computer and passively click on images that appeal to me.  I did not flip through a stack of shelter magazines and fold down the corners of pages that caught my eye. I did not write a blog post entitled “Things I want to buy!!!!!” [1]

Con questa “Open letter” il blog dell’Hermitage Collection  prende una posizione ben precisa contro l’uso diffuso, forse anche troppo, del termine “curator” e della content curation. E si incavola pure. Se la prende con coloro, complici i social network che si diffondono come funghi, con la scusa della “content curation”, si autonominano curator.

Fashion bloggers che vi divertite a fotografarvi con la vostra fighissime reflex o se più sfigate, con l’Iphone e i filtri Hipstamatic, state attente. Voi, iconofagi drogati di Pinterest, non azzardatevi a chiamarvi “curator”.

Ciò che  fa venire i capelli dritti al blogger-curator è il meccanismo della lista, il like/dislike, che tra un click e un upload, ti fa correre in modo eccitante verso la curation: “eh si, son curator perché queste immagini le ho scelte io”. Ma lasciamo stare la lista, che ha tutta la sua dignità e che purtroppo nel linguaggio comune è relegata ancora a mero strumento della massaia (ma basterebbe leggere un po’ di Eco, per rendersi conto che la lista è molto più complessa di quanto sembri).

La lettera, più che una minaccia, sembra più uno sfogo, come dice lo stesso autore,  infastidito da un uso del termine tanto diffuso quanto fattibile di misunderstandings. Ma cerchiamo di dare il giusto peso a tutto; parliamoci chiaro, parlando di “curator” al di fuori del contesto dell’arte contemporanea, equivale a cercare di tradurre il termine  – e il significato culturale – di Pom Poko in giapponese. E questo, guarda caso, è altresì confermato proprio dallo stesso articolo:  il lavoro del “vero curator”  e del “curator abusivo” non hanno nulla in comune, ma proprio nulla. Lo stesso termine per due operatività totalmente diverse. La colpa? Dello stesso termine, o meglio, di chi se ne è appropriato.

Facciamo un passo indietro: il termine curatore arriva da un verbo, che come nella sua origine latina che in inglese, significa “prendersi cura di”, “avere cura di”. Andando alla radice, il conservatore avrebbe ben più diritti di chiamarsi curatore, invece del siffatto tale. E no, interviene il restauratore, ho più diritto io. E così via; basta poco per dimostrarlo, ma il processo che parte dall’origine del termine porta ad una strada chiusa. Anche  perché non siam di fronte ad un neologismo, quanto una risemantizzazione,  che proprio per questo si presta ad ambiguità e a molteplici interpretazioni.  Prova empirica ma efficace, se vado al Centro Impiego con il mio CV  e dico che sono una “curator”, molto probabilmente l’impiegato dell’Ufficio Comunale mi chiede se posso aiutarlo a guarire il fastidioso dolore alla spalla che lo attanaglia quando l’umidità sale. Oppure, se va meglio (o peggio), mi guarda atterrito al solo pensiero della parola “insolvente”.

Secondo. Ad inizio post, l’articolista sottolinea i diversi lavori, tutti all’interno dell’arte contemporanea, che ha fatto prima di diventare effettivamente curator (quindi come lavoro VERO, intendo). E la sua storia,  è la storia di altri (pochi) che ce l’hanno fatta: alla professione curatoriale vera e propria, oggi come oggi,  ci si arriva solo dopo una miriade di esperienze. E non solo per un fatto economico, ma perché oggi più che mai al curatore di professione è richiesto di aver maturato esperienza, contatti e conoscenze in contesti che ruotano nell’arte contemporanea, ma che non sono quelli della curatela. Che però, sono indispensabili.

Guarda caso, si diventa curatore passando per il non essere curatori; il che suona almeno  curioso, soprattutto se rapportato all’articolo, che cerca di definire cosa è e cosa non è curatela, pur conscio di come questa sia un’impresa impossibile.

Concludo: siamo davvero sicuri di voler attaccare l’anarchia totale di un termine che, purtroppo, fin dalla sua ri-nascita, non ha mai avuto una definizione precisa, o meglio, alla richiesta di definizione, si ottengono ogni volta risposte diverse? La “bastardisation”[2], come la chiama Suse Cairns, museumgeek che dal suo brillante blog ha rilanciato la questione, porta solo effetti negativi? O forse, permette – forse anche in modo subdolo – una maggior apertura?


[1] “An Open Letter to Everyone Using the Word ‘Curate’ Incorrectly on the Internet”,http://hermitagemuseum.wordpress.com/2011/10/04/an-open-letter-to-everyone-using-the-word-curate-incorrectly-on-the-internet/, 4 ottobre 2011

[2] A throwdown about the term ‘curator’, 15 Aprile 2012,http://museumgeek.wordpress.com/2012/04/15/a-throwdown-about-the-term-curator/

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